Proiezioni di film
Durante la manifestazione verranno proiettati due film di tre registi sardi. Gabriele Boi, Riccado Muroni e Andrea Deidda
(Presso la Fabbrica di Kimbe, Via Garibaldi 20)
Vincitore del primo Italymbas all'ottava edizione del Babel Film Festival.
Dai paesi della Sardegna emigrano giovanissimi per inseguire un sogno: correre al Palio di Siena. Diventare fantini di piazza del Campo però non è per tutti: la fame di gloria impone di lasciare la propria terra dove tutto è cominciato cavalcando a pelo nelle campagne e nei palii più polverosi. Una passione che richiede sacrifici dalla mattina alla sera nelle scuderie, nell’attesa di qualcosa che potrebbe avverarsi. O forse no. Un racconto dietro le quinte inedito che si conclude nel momento esatto in cui lo spettacolo del Palio si apre al giubilo del grande pubblico.
Anno Produzione 2023
durata 60 min.
Regia: Andrea Deidda
Prodotto da: Andrea Deidda
Coproduzione: Terra de Punt
Produzione esecutiva: Associazione culturale Arvéschida
Soggetto: ispirato al libro fotografico ‘Fortza Paris’ di Marco Cheli
Fotografia e montaggio: Andrea Deidda
Riprese: Andrea Deidda, Lucrezia Degortes
Color correction: Andrea Marras
Musiche originali: Emanuele Contis
Sound design: Emanuele Contis, Simone Frau
Mix audio: Simone Frau
Aiuto regia: Lucrezia Degortes
Con: Giovanni Atzeni, Sebastiano Deledda, Salvatore Ladu, Eleonora Mainò, Antonio Mula, Paolo Arru, Stefano Piras, Giovanni Puddu, Michel Putzu, Andrea Sanna
(Presso la Fabbrica di Kimbe, Via Garibaldi 20)
Prodotto da RICUBICA PRODUZIONI e PHORMAT STUDIO
Sceneggiatura e Fotografia : GABRIELE BOI
Editing e Color Grading : Riccardo Muroni e Gabriele Boi
Suoni SIMONE MURA / Musiche originali :FABIO DEMONTIS
Trucco ROBERTA BARRUI
Costumi NOEMI TRONZA
Con NOEMI MEDAS, MICHELA ATZENI, FEDERICO SABA, OMAR MAMELI,
SAMUELE MARCI, FEDERICA ZONCU.
Comparse:
MARCELLA MELONI, AGNESE LEVANTI,
LUCIANA CANNAS e MARIA LAURA SERRA
Si erano rifugiate nell’oscuro grembo del mondo contadino che le aveva generate.
Chiamate streghe, mazineres, bruxas (brujas) o encantadoras in catalano, cogas e mayarzas in sardo, erano donne che conservavano dentro di sé il potere delle antiche sibille, la sapienza delle prime fadas, le janas oracolari dalla vita lunga come l’infinito e dalle ancestrali virtù.
Eredi delle antiche dee e sacerdotesse, le streghe in Sardegna erano creature che avevano appreso e accumulato conoscenza mentre gli uomini inventavano la guerra. Ree di coltivare culti remoti e di aver appreso i segreti del mondo, erano da distruggere e cancellare.
Così aveva sancito la Santa Inquisizione, istituzione ecclesiastica spagnola, attiva su tutti possedimenti su cui gravava la dominazione della corona iberica (isola sarda inclusa), nata nel 1478 per combattere le eresie contrarie all’ortodossia cattolica.
Catalina Lay levatrice di Seui, piccolo paese dell’Ogliastra, faceva parte delle donne giudicate streghe. Arrestata dall’arcivescovo di Cagliari si era ritrovata il giorno di ferragosto del 1583 ad ascoltare l’autodafè, la proclamazione della sentenza di condanna, scalza sulla piazza della Carra a Sassari, città in cui, dal 1563, aveva sede il tribunale inquisitorio. Non era sola, con lei altre otto donne trai trenta e i sessant’anni: Joanna Porcu e Clara Dominicon di Sedini, AntoniaOrrù di Escolca, Pasca Serra di Villanofranca, Catalina Pira di Tertenia, Sebastiana Porru di Gemussi, Catalina Escofera di Cuglieri.
Tutte accusate di essere fattucchiere, attentatrici dell’ordine voluto da Dio, maliarde malefiche, amanti e adoratrici del diavolo. La caccia alle superstizioni e ai sacrilegi aveva colpito in particolar modo le donne: l’84% delle persone
processate in Sardegna per stregoneria era infatti di sesso femminile. Colpevoli di carpire l’autorità divina le presunte streghe dovevano essere denunciate, stanate e pubblicamente additate.
Le levatrici furono da subito perseguitate perchè secondo il “Malleus Maleficarum” – manuale di demonologia del giudice inquisitore – erano le principali fautrici delle eresie più gravi ossia erano schiave del demonio, potevano impedire la procreazione, minavano la fertilità e sopprimevano feti e neonati immolandoli al diavolo.
Quelle donne – in sardo chiamate levadoras, aggiutadoras o maistas‘e partu – erano empiriche e terapiste che presiedevano ai momenti della nascita aiutando le altre donne con la loro esperienza e abilità.
Una particolare occupazione che, a causa dell’alta mortalità infantile a cui erano soggetti i piccoli appena nati, circondava queste figure di un’aura misteriosa.
Rispettate e allo stesso tempo molto temute avevano, secondo le credenze popolari, potere di vita e di morte, un’autorità a loro conferita che attribuiva a sas levadoras facoltà di agire sul ciclo dell’esistenza delle famiglie e del paese a cui appartenevano. Con la loro conoscenza di erbe e rimedi erano capaci di provocare l’istrumingiu, l’aborto, o divenute accabadoras avevano il compito di recidere il filo della vita.
Una libertà di movimento e di azione che usciva dalla tutela patriarcale collocandole fuori dal focolare e dagli schemi precostituiti dell’ordine sociale quelli che ancora relegavano le donne dentro le mura domestiche.
Catalina Lay accorreva quando veniva chiamata. Percorreva svelta le ripide discese e salite di pietra del suo paese per giungere ai capezzali delle puerpere. Di lei non sappiamo molto, pochi i cenni biografici che emergono da
antiche carte.